Dalla democrazia dei partiti a quella degli elettori
di Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello
E' possibile in politica fare a meno dei partiti? Pur con tutti i mutamenti che hanno segnato l'evolversi della "forma partito" in Italia, è immaginabile che senza di essi il sistema possa funzionare?
La risposta è no. Certo, sarebbe un errore pensare oggi ai partiti così come li abbiamo conosciuti a partire dal secondo dopoguerra e fino ai primi anni Novanta: fulcro del sistema, talvolta fine stesso dell'agire politico, oltreché vere e proprie agenzie di socializzazione per i cittadini dell'era delle ideologie. La rivoluzione del 1994 ha infatti spostato il baricentro della politica dall'organizzazione di parte al conseguimento del bene comune, trasformando i partiti da fine a strumento di conquista del consenso del popolo sovrano, fonte di legittimazione del governo del Paese.
Da una democrazia dei partiti, insomma, l'Italia è diventata una democrazia degli elettori. Il Popolo della Libertà è figlio di questa rivoluzione, e la sua nascita risponde all'esigenza di dar vita a uno strumento non occasionale attraverso il quale essa possa compiersi. La sfida è unire una molteplicità di forze e di esperienze catalizzate dalla leadership di Berlusconi; lo sforzo dev'essere quello di fondere due realtà partitiche molto diverse fra loro. Alleanza nazionale, con il suo capillare radicamento territoriale, la sua articolazione in correnti pressoché "istituzionalizzate", una lunga sedimentazione che affonda le sue radici nella storia del Msi. E Forza Italia, una realtà a vocazione carismatica, che non si è mai sviluppata in correnti ma piuttosto come aggregazione di persone, ognuna portatrice di un contributo in termini di competenza, di rappresentanza di un mondo, o di radicamento territoriale.
In un primo momento queste specificità originarie hanno trovato una propria rappresentazione numerica nella "regola del 70 - 30". Da qualche parte bisognava pur iniziare. Superata la fase di rodaggio, però, se si continuasse a restare ancorati alla logica delle provenienze e delle ripartizioni percentuali, se si tramutasse il patrimonio di culture e sensibilità confluite nel nuovo partito in una zavorra di intrinseche e insuperabili "diversità" sottoposte a coabitazione forzata, si condannerebbe il PdL ad essere un'esperienza inevitabilmente a termine, pronta a disgregarsi non appena la chiusura della fase d'avvio consentirà di far fruttare altrove le rendite maturate in questo periodo storico. Sarebbe una grande occasione sprecata. Il Paese tornerebbe indietro di quindici anni, e il sistema Italia rischierebbe di andare in frantumi e polverizzarsi sotto la spinta di fratture profonde, non ultima quella fra Nord e Sud.
Lasciarsi alle spalle la fase della convivenza algebricamente regolamentata non è facile, ne siamo consapevoli. C'è bisogno di tempo e di buona volontà, e - perché no - di una consapevole e positiva ibridazione tra le diverse culture di provenienza. Quando "l'esperimento PdL" ha avuto inizio, benedetto dal consenso degli elettori, gli esiti non erano affatto scontati. Oggi, dopo oltre un anno e mezzo di legislatura, possiamo dire che nei gruppi parlamentari l'amalgama è ben riuscito. In Senato, ad esempio - realtà su cui ci esprimiamo per esperienza diretta - la pratica della quotidianità, la costanza del confronto e la condivisione di battaglie politiche alte e importanti hanno cementato l'appartenenza a un'unica grande squadra, al punto che ormai si stenta a ricordare la provenienza di ogni senatore.
Lo stesso dovrà avvenire nel partito, con i dovuti tempi, trattandosi di un ambito più complesso per organizzazione e per entità. E se questo è il traguardo, la strada è obbligata: non rinnegare le diversità d'origine, che hanno un ruolo e una ragion d'essere, ma neanche fossilizzarsi su di esse; superare le posizioni di partenza in modo che le origini di ognuno possano progressivamente comporsi come tessere di un unico mosaico, senza che questa operazione appaia forzosa né artificiale.
L'incontro di Arezzo va esattamente in questa direzione. Muove da una tradizione pre-esistente non per riaffermare una presenza in uno spirito di conservazione, non per contarsi, ma per superarla e andare oltre, aprendosi al contributo di altre persone, di altre esperienze, di altre aggregazioni e di altre sigle di quella galassia in divenire che si chiama Popolo della Libertà. Vi è chi dell'iniziativa si è fatto promotore, e chi ha voluto esprimere la sua adesione: il risultato è l'affermazione di un percorso comune di cui i pensieri che oggi esprimiamo a una sola voce su queste colonne sono una esemplificazione.
Ad Arezzo alcuni si ritroveranno, ma tutti ci troveremo per rilanciare il progetto del PdL come la sfida più impellente e più importante che dobbiamo affrontare. Per ribadire che il partito unitario dei moderati e dei liberali italiani ha oggi una leadership chiara, ma anche che il PdL dovrà essere il lascito che la nostra esperienza politica consegnerà alle generazioni future, e in quanto tale dovrà essere in grado di istituzionalizzare il rapporto tra popolo e leader e sopravvivere a questa straordinaria stagione. Per affermare che il PdL è lo strumento della democrazia degli elettori, ma anche un luogo disciplinato in cui le istanze che non fanno parte del programma elettorale vengono sottoposte al voto degli organi statutari. Un luogo in cui quando serve ci si conta e si prende atto del verdetto, senza fossilizzarsi in maggioranze e minoranze precostituite e immutabili, ma con la consapevolezza che in un partito a vocazione maggioritaria, in cui l'appartenenza è per forza di cose un dato empirico, capita a tutti prima o poi di trovarsi in minoranza, senza bisogno di drammi o guerre di religione.